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Immagine del redattoreValentina Di Clemente

Fili d'erba

Aggiornamento: 6 mag




Era il 2014 ed io, un martedì d'inizio ottobre, mi trasferii a Londra. Avevo da poco compiuto ventitrè anni e non conoscevo il tempo come lo conosco ora.

Il tempo, quando hai ventritre anni, non ha valore. Ne avevo cosi tanto da non sapere bene che farmene e avevo la fame di chi pensa di non aver mangiato mai davvero.


I primi giorni a Londra erano giorni strani, fatti di occhi mai sazi, di ristoranti indiani che proponevano cibo piccante a 5,99£, di ostelli nei quali ti appoggiavi ma in realtà non t'appoggi mai davvero perchè le mani sudano sempre e stare fermi era qualcosa che apparteneva a quelli più grandi di me.

Avevo un iPhone che tenevo sempre stretto tra le mani e delle cuffiette auricolari rigorosamente con il filo. In commercio c'era già qualche cuffia wi-fi ma io non sono mai andata troppo d'accordo con la tecnologia e quel maledetto filo che si aggrovigliava semrpe per me è, ancora oggi, un must.


Comunque, mentre percorrevo interminabili tratte in metropolitana per spostarmi sottoterra da un punto all'altro della città, alla ricerca di un qualcosa, il sottofondo musicale che mi accompagnava era sempre lo stesso ed io, per intere giornate, non ho mai sentito la necessità di cambiare canzone.


"How does it feel, to be without a home?

Like a complete uknown?

Like a rolling stone.."


Quanto devo dire grazie a Bob Dylan per questa canzone.

Non avevo ancora trovato un posto, tra quel via vai di macchine e persone, da chiamare casa. Non potevo ancora lasciare il mio spazzolino su un lavandino che usassi solo io, avevo un sacchetto con i vestiti sporchi che forse un giorno avrei portato in una lavanderia a gettoni e, quando calava la sera, mi sdraiavo nel letto numero 4 della mia stanza condivisa e ascoltavo i rumori dei miei compagni di camera che dormivano, ricordandomi che loro avrebbero sentito i miei.


Era tutto cosi instabile, e la cosa mi piaceva tantissimo.

Non avevo ancora trovato nemmeno un lavoro, e questo mi piaceva meno ma, col senno di poi, ricordo quei giorni, che non saranno stati più di quindici, come i più belli della mia vita.


Sei un limbo, cullata dalle migliaia possibilità che ti si presentano davanti ma che scegli di non cogliere.

Sei, come dice Zero Calcare, "soltanto un filo d'erba in un prato ".

Io cosi mi sentivo in quei giorni, sollevata dal peso di aspettative e responsabilità. E mi è piaciuto cosi tanto che non vedevo l'ora di rifarlo e, per questo, poco più di un anno dopo, ho preso un volo per l'Australia. Per ricominciare, ancora una volta, tutto da capo.


E' a quegli anni che risale, per me, l'interesse per le storie di persone come Santino. E' paradossale il pensiero che io possa invidiare qualcosa della loro vita. Ed invece è proprio cosi.


Santino lo incontro per caso in un sabato di maggio in via Paolo Sarpi, a Milano, una via che profuma di soia e pollo fritto che, diciamocelo, già ti mette di buon umore.


Santino cammina sorridente con un cappotto che, mi confessa dopo, non si toglie mai, per paura che gli venga rubato. Urla parole gentili. "Buongiorno bel ragazzo, sorridi!" "Signora, il sole splende anche per te!"

Si porta dietro un carrellino simile a quello che il Natale scorso regalai a mia nonna per portare la spesa. Con la differenza che lui, in quel carrello, porta la sua vita.


E con la sua vita intendo un cuscino con una federa bianca, due lenzuola che, ci tiene a specificare, lava una volta a settimana. Una coperta con fantasia scozzese un po infeltrita ma che, come dice lui, fa il suo lavoro, una confezione formato famiglia di bagno schiuma e quello che a lui piace chiamare "il mio vero lusso", una bombola a gas che gli permette di scaldarsi quando le temperature diventano rigide.


Insomma, Santino chiedeva a qualcuno di offrirgli un caffè, incrociò il mio sguardo e pochi secondi dopo era seduto di fronte a me e ringraziava, rigorosamente in cinese, la cameriera del bar che gli portava un bicchiere d'acqua.


"Parlo un po' di cinese, l'ho imparato vivendo qui in Chinatown, mi sono fatto un sacco di amici".

Gli chiedo di raccontarmi della sua storia e il permesso di riprenderlo con il telefono. Un po', lo ammetto, mi piace pensare di averlo lusingato.

Dal momento in cui estraggo il cellulare dalla tasca per metterlo davanti alla telecamera smette infatti di guardarmi, si rivolge all'obiettivo e io sento vibrare forte nel suo sguardo deciso la speranza che quelle sua perole possano essere ascoltate da chissà quante altre persone.


Ed è quello il momento in cui capisco che, alla fine di quella manciata di ore passate insieme, ci saremmo sentiti entrambi davvero molto fortunati per questo incontro.


Mentre gli racconto di essere stata in Sicilia solo una volta e vengo riproverata perchè "eh no, devi vederla bene la mia terra, devi andare a Messina e guardare l'Italia dall'altra prospettiva, solo cosi capisci dove sei.", mi chiedo se quest uomo sia consapevole di quanto profondo sia ciò che dice.


Sarei rimasta seduta con lui volentieri almeno un'altra mezzora ma lui si alza di scatto come se fosse finita la sua pausa pranzo ed avesse qualche cartellino da timbrare.

"Io adesso devo andare al mercato, se ti va di venire con me ti presento la mia famiglia".


Non me lo faccio ripetere due volte.

Camminiamo lungo via Paolo Sapri insieme, lui davanti a me, io che mi faccio guidare dalla sua andatura decisa e seguo il suo carrellino porta vita mentra fa slalom tra chi, la pausa pranzo, l'ha finita davvero.


Giriamo su via Canonica e svoltiamo su Via Piero della Francesca dove lo vedo entrare in un bar che, fino a quel giorno, avrei considerato anonimo.


Seduto all'esterno, in uno dei tavolini del piccolo dehor coperto, c'è Salvatore, il proprietario, che quando lo vede arrivare spegne la sigaretta frettolosamente nel portacenere a vetro ed entra velocemente all'interno del locale.

Io e Santino arriviamo qualche secondo dopo, entriamo e Salvatore lo anticipa dicendogli che aveva già chiesto a sua moglie di preparargli un piatto di pasta.


Esco dal bar, e, dopo le dovute presentazioni, mi siedo insieme a Salvatore e ci accendiamo una sigaretta. Mentre appoggio l'accendino sul tavolino vedo lo sguardo di Santino che mi fissa con disapprovazione e me ne dispiaccio.

Salvatore mi dice di conoscere Santino da quasi vent'anni, abbozza il sorriso sornione di che avrebbe un sacco di cose da raccontare ma sceglie di non farlo. Forse questa, però, è un'altra storia.


Io ed il mio amico ci allontaniamo con l'inseparabile carrello porta vita e finalmente ci dirigiamo verso il mercato di via Fuchè, un'istituzione tra i mercati rionali di Milano ed il motivo per il quale, qualche ora prima, ci avevo messo quarantadue minuti per trovare parcheggio.

Non so perchè ma arrivando mi ero immaginata che lo avrebbero accolto lanciando petali di rose dai vari banconi e con un grande applauso, come si fa con le celebrità. Forse perchè più passavo del tempo con lui più mi sembrava di essere davanti ad una persona ed allo stesso tempo un personaggio.


Comunque, non c'erano rose ed applausi ma sorrisi come se piovessero. Si, alcuni anche di scherno, Santino rivendeva biglietti del superenalotto e, mentre arrivavamo al mercato, si era venduto benissimo con me che, ormai, da lui ero già conquistata.


"Vedi, Valentina, io con questo gesto cerco di dare agli altri la mia fortuna. E di mangiare."

Mi sono chiesta che bisogno avesse un uomo, le cui speranze nei confronti della vita avrebbero dovuto essere cosi basse, di romanticizzare ciò che fa per mangiare.


E mi sono risposta che è esattamente quello che facciamo noi, che forse lo si fa per dare un senso perchè senza un senso le cose alla fine non si fanno mai.


Arrivata al mercato ho conosciuto la sua famiglia. Il mercato ed i mercanti. Che lo vedono arrivare e sorridono, gli allungano due euro prima ancora che lui possa allungare loro uno dei suoi biglietti fortunati.


Arrivati alla fine della via, Santino aveva in tasca 20 euro e la sensazione tangibile di non aver rubato nulla nessuno, di essersi impegnato anche oggi per salvaguardare una dignità che, ai nostri occhi, potrebbe sembrare persa.

E invece non lo è.


Lo guardo ammirata e lo saluto con un abbraccio. Mi dice che sono stata un regalo, che siamo diventati amici e che, la prossima volta che ci vedremo, il caffè lo offre lui.

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